Chi?

Tuesday, November 18, 2003

Scoiattoli, husky e salmoni





(le mie vacanze d'autunno canadesi)




Ricorderò Montréal come la città degli scoiattoli, delle biciclette e dei pazzi senzatetto. Il tempo è splendido, il San Lorenzo placido, io e il mio zainetto serpeggiamo fluidi nella variopinta folla di studenti schitarranti e attempati ciclisti. Contemplo compiaciuto il miracolo sotto i miei occhi: gente cool che parla in francese, chi l'avrebbe pensato. Alfredo mi guida per la città vecchia, il quartiere latino, il Village e il Plateau, ex ghetto di immigrati ed attuale oasi fricchettona; quella vecchia baldracca della mia carta di credito si lascia strofinare da svariati commessi di librerie e cd-shop d’occasione (buona caccia di musica quebecchese, altra sorpresa). Chantal e Stéphanie ci portano alla serata d’apertura dell’Università francofona, dove un gruppo di comici in ascesa sbeffeggia i politici locali e tale Thomas Jensen, tra Manu Chao e Noir Désir, infiamma la pista; rido per cameratismo e poi ballo di gusto (saggio di umorismo quebecchese, l`imitazione di radio Canada: “morti, stupri e violenze - in un ottimo francese”). Alfredo, franco-spagnolo fuggito da Bruxelles, lavora qui da sei mesi e conosce i locali palmo a palmo; si sceglie un pub studentesco di quattro piani più balcone più giardino più cortile più valanga di ventenni bionde e vaginifiche. Mentre mi racconta della sua imminente partenza per la Nuova Zelanda, la mia birra invidiosa efferve all`epifania di una telegenicissima neomaggiorenne che si siede senza troppi complimenti al nostro tavolo. Per venderci marijuana, e che credevi, qui anche lo spaccio ha le sue esigenze estetiche.


Per espiare le birre incamerate scampagno al Mont Royal, boscosa collina con vista sui buildings, sul centro olimpico, sulla snobbissima università anglofona in stile, of course, vittoriano; qui in cima prendono vita le Tam Tam Sundays, psicobucoliche adunate di bongolisti scalzi, punk e giovani engagés – si inscena la rivoluzione che si tradirà col diploma in tasca. Montréal, per inciso, è insieme a Berkeley la capitale no-global del nord America. A pranzo ci attende uno street-party nel quartiere borghese. Artefice ne è Jerome, giovane expat francese, free-lance per un settimanale di strada. Le sue compiaciute ambizioni socialsociosociali sono assecondate dal municipio locale che gli fornisce tavoli, panchine e transenne per chiudere la strada. Il concetto è banchettare tra vicini di casa, né più né meno, ma a sentire le conversazioni dei quebecchesi presenti l`evento è più epocale di un colpo di stato di Gran Bretagna. Scopro così che in questo grande paese, il cui più grave dramma politico attuale risiede nelle liste d`attesa per la scuola materna, la paranoia individualista è fonte di quotidiano malessere. Così almeno mi confermano un`ex sessantottarda della Costa Azzurra, un settantenne anarchico ed una casalinga troppo in carne che si complimenta per il mio francese. Sfido, è dislessica. Comunque ottima scorpacciata di cibo haitiano, qualunque cosa ci fosse dentro. Serata nostalgica sotto una pioggerellina battente, accessorio periferico dell`uragano che ha risparmiato le mie vacanze. Nostalgica perché rivedo Christine, bella e sola come cinque anni fa. I genitori persi in un incidente aereo, mica facile scherzare con la vita per lei.


Lasciati i viali infiniti, le casette colorate, i beggars, i tattoo-shop, i locali ultra-stylish, le code davanti ai sexy-bar (!), i brunch generosi, l’inaudita fauna del quartiere gay, mi inbarco per il grande nord. Nota dolente: sul mio volo una truppa di cacciatori americani in tuta mimetica produce un casino pari solo a quello di una truppa di cacciatori americani in tuta mimetica, ma quando paghi 240 mila dollari per qualche giorno di caccia al caribù fischiare alle tette della hostess eschimese è francamente comprensibile. Nota saliente: gli annunci in eschimese sono dieci volte più lunghi di quelli in inglese e per iscritto i geroglifici sono così decorativi che quasi quasi mi faccio tatuare “giubbotto di salvataggio sotto il sedile”. Il paesaggio sorvolato per tutto il volo non assomiglia a nulla di già visto e se siano terre invase dalle acque o piuttosto mare tempestato di arcipelaghi proprio non saprei dire. Isabelle mi viene a prendere all`aeroporto in sella ad una moto a quattroruote, il veicolo più diffuso qui a Kuujjuaq assieme allo ski-doo, un piccolo gatto delle nevi che scheggia come un motoscafo. Siamo nel Nunavik, sotto la baia di Ungava, terra di crateri di meteoriti, tundra e orsi bianchi; il villaggio non ha collegamento alcuno (strade, ferrovie, acquedotti) se non per aereo o battello fino a ottobre, prima che ghiacci il fiume, uno dei pochi al mondo soggetto alle maree. Non ne so il motivo ma le orecchie mi fischiano per ore, quei particolari che nelle puntate di Quark non ti raccontano mica.


Il villaggio inuit conta 2000 abitanti sistemati in blocchi prefabbricati tutti uguali e sopraelevati (non si può scavare nel permafrost). Isabelle vive qui da appena due mesi, dopo due anni passati in Mali, ed insegna francese ai bimbi eschimesi, che ovviamente voglio subito incontrare; quello più sveglio mi accoglie in classe con un “como va”, gli altri mi parlano un po’ in inglese e un po’ in inuktikut. Per tradizione gli eschimesi regalano un figlio ai genitori, così alcuni bimbi sono fratelli della loro mamma. Praticamente tutti gli inuit sono alcolizzati e molti pure tossici, per cui nello spaccio del villaggio non si trova neanche una birra, che si trova invece (carissima) al mercato nero. Il week-end lo trascorrono a ubriacarsi pesante, e gli episodi di violenza domestica sono innumerevoli; il tasso di suicidio è il più alto del mondo. Isabelle mi racconta storie di cui ancora rabbrividisco mentre mi accompagna in una passeggiata nella tundra, dove il piede affonda nella torba nera costellata di bacche e di tanto in tanto si incontano sculture in pietra che gli inuit usano per orientarsi (inukshuk). La comunità bianca è composta per lo più di ragazzi intraprendenti attirati dall`avventura e dagli stipendi assai elevati; Alejandro, urugaiano, ha trovato lavoro in banca il secondo giorno in cui è arrivato. Ci sono australiani, messicani, olandesi e io rischio di essere il primo italiano a mettere piede qui da chissà quanti anni. Ogni tanto qualche eschimese suona alla porta per vendere denti d`orso. Aspetto con impazienza la cena, quando mangerò carne di caribù e se avrò fortuna vedrò l`aurora boreale - direi che me la merito; nel frattempo giocherello con Kaua, finalmente un husky al posto giusto.



1 comment:

Anonymous said...

leggere l'intero blog, pretty good