Chi?

Tuesday, November 18, 2003

Welcome to the barbarian world



La frontiera tra uomo e animale esiste, io ci ho passato il sabato sera. 8 euro e un timbro macabro sul polso per entrare al Magasin 4, due piani di granaio adibito a riserva di sottocultura per nomadi urbani.
Breve ricetta per ricreare la serata tra le quattro mura della tua cameretta: amplificare per 3-4 ore un citofono intermittente, campionare colpi di mestolo sulle padelle di Vanna Marchi, condire con squarci di apocalisse sonora. Questo per la musica. La gente: beh, gente è una parola grossa, diciamo un campionario di utensili in acciaio duro inseriti con diverse angolazioni in carne umana, roba da far saltare il metal-detector dell'aeroporto di Newark. Noi: portatori sani di 4, massimo 5 birre; gli altri: hanno in corpo tutto il corso di chimica di seconda e terza liceo.
La dark-lady, quella che ogni respiro è l'ultimo respiro, una citazione di Uma Thurman in procinto di overdose; la skinhead con ciuccio in bocca; il dj partorito da una tela del Goya, tutti assieme mentre dal cielo una benedizione di stroboscopiche.
Non so se trangugiare il boccale di birra o spaccarmelo in faccia e sanguinare in pista, perché in qualche modo la camicetta beige devo farmela perdonare. A colloquio col mio vespasiano (a costo di deludervi, non ho pisciato contro i muri), una cyberpunk supervisiona il mio vicino urinante; lui: «me lo succhi?», lei ride. Benvenuti nel mondo dei barbari. A dire il vero la serata non era iniziata proprio così, ma la festa "Crema e gusto" nell'ex fabbrica di materassi ci aveva un po' rotto le scatole, con tutte quelle musichette da Rock FM e i manichini qua e là come coreografia da manuale del DAMS, figuratevi che il dj non aveva nemmeno il mio pezzo preferito dei New Order e neanche il mio secondo pezzo preferito dei Laid Back e neanche il terzo - beh, a quel punto già mi aveva mandato a cagare.


PAGELLA DEL WEEK-END: sarò autoindulgente, ma mi do un bel sette per adattamento darwiniano, in fondo mi sono riportato a casa tutti gli organi, e tenete conto che c'era l'eclisse di luna. VOTO IN POSTAPPELLO: 4, perché ancora non vi ho raccontato dell'uscita dagli inferi, quando una puta liberiana mi salta in groppa a mo' di zainetto e non mi molla per un quarto d'ora. Sarà il fascino dell'erre moscia, sarà che con i cadaveri del locale non batteva chiodo, Mumbugumba mi vuole un sacco bbene. Mentre quel bastardo di Arnaud le dà sponda io cerco di tenere la situazione sotto controllo, una mano sul portafoglio, una sul telefonino, quella sul pacco non è la mia. Riuscirà il nostro eroe? Poffarbacco, o voi malfidenti, certo che sì, colui che è sopravvissuto ad una missione a Roma con il Guru Nostro Grande Capo!

HAI DETTO ROMA?
Nota di merito alla location romana, tre palle cosmiche poggiate sull'auditorium di Renzo Piano, ma niente Dartmaul o Ewoks in vista: solo i delegati del congresso Unione Europea e paesi africani. Siccome dimentico a casa fazzoletti, calze e scarpe di legno, mi aggiro per il congresso in completo e scarpe da ginnastica, senza remora alcuna perché intorno a me è tutto uno sciabattare di delegati in tunica e turbante. Precede summit nella sede del partito, con il Guru Nostro Grande Capo che ci istruisce sui precedenti congressi snocciolando i ricordi di Berlinguer, Marchais, Sankara, e tu hai voglia a spiegargli che sono tutti morti e l'Alto Volta si chiama Burkina Faso. Introdotto e accreditato, mi cospargo di buone intenzioni terzomondiste finché il Guru Nostro Grande Capo, finito di decantare sermoni a Radioguru, sopraggiunge maestoso e ci allieta di aperitivi; dopo tre martini prende le sembianze di Miriam Makeba ed è subito un Pata Pata. Il venticello tiepido asciuga in tempo reale gli accenni di sudore, in ottobre a Roma tutto è leggero tranne i romani. Siccome ci aspettano le piogge fiamminghe, temporeggiamo di buon grado in questo autunno da assaporare, facciamo insomma tutte quelle cose lì che si fanno a Roma, pizza dal Baffetto, sambuca in Campo de' Fiori, passeggiata sulle terrazze del Corso, vedova allegra maîtresse dei caffè, quant'è bella via Margutta, se bevi Neri ne ribevi. Il cerchio si chiude, a Bruxelles il Magasin 4 mi aspetta.


Mijn Canadees herfstvakantie - deel 2



(Di come non ho visto le balene nei fiumi ma in compenso con una ci sono andato a cena)

Nelle palafitte metalliche di Kuujjuaq la vita semplice ma spensierata della giovane comunità dei bianchi si prende la rivincita sull'ostilità della tundra, che sotto jet-lag ispirato vuol dire, in sostanza, che mercoledì sera ci siamo presi una piena. Per il suo compleanno, Isabelle ha dato fondo alla generosa riserva accumulata grazie al servizio postale della Compagnia Canadese degli Alcool, unico sistema di rifornimento possibile in un villaggio dove gli Inuit riescono a farsi pure con le taniche di benzina. A cena c'è il gruppo affiatato degli young teachers allo sbaraglio; Fanny mi chiede "tu comprends tu biein le franseis?", la risposta giusta è che dovrebbe dare un altro nome alla sua lingua. Johann impasta e tagliuzza le fettuccine all'uovo come faceva mia nonna, se ci aggiungete un sottofondo di Vangelis vi verrebbero le lacrime agli occhi pure a voi che avete il cuore nel carburatore dello scooter.



Siccome nessuno osa rifiutare le cariche di tequila di un urugaiano in trasferta, finisce che Pastamatic Jo mi scodella un candeliere sulla macchina fotografica ed io calcio un limone contro un calice di vino, tra i balli generali. Quegli attimi sapidi che rendono la vita gustosa, scriverebbe Delerm; le cazzate di tre pirla ubriachi, avrà invece sospirato Isabelle deplorando lo stato della sua moquette.


L'indomani, non appena ritorna la corrente elettrica all'aeroporto, mi imbarco di nuovo per Montréal. Segue nota per il mio biografo. In quarta di copertina mettici: "Belguglielmo a 18 anni consegue la maturità classica, a 25 si laurea in filosofia, a 27 viene assalito da una lesbica". Succede che la sosia canadese di Elena Bonham Carter, ma senza ustioni di sigarette, mi propone un ballo erotico "per shockare la mia amica"; il che è più arduo del previsto, poiché la sua amica sta rotolando sul pavimento della pista avvinghiata ad un giocatore di basket. Tutto ciò non scalfisce il mio risveglio, con partenza immediata per Québec City, di cui potrete farvi rapidamente un'idea prendendo un qualsiasi paesello svizzero addobbato a città di Babbo Natale. Là mi attende un appuntamento alla cieca con Marie-Pierre; unico indizio per lei: ho i capelli rasati e sto seduto su una valigia verde pisello (affronto per l'occasione una tosacani locale e mai cinque dollari furono spesi così male); unico indizio per me: è la sorella di Isabelle.




Mariapiera si presenta grassa ed avvolta dalla keffiya non smentendo quella prima, indelebile impressione che anche i suoi genitori devono aver avuto fino al momento del battesimo. Dopodiché, si capisce, ci si affeziona, ma non basta una cena, perlomeno non nel mio caso. Mariapiera piscia opinione su ogni argomento, mi fa dono di aspri aforismi e si prodiga in continue lamentele sulla cena. NB, il Cosmos è proprio un ristorante gggiovane e fico. Lei: mi dice stasera voglio disfarmi; io: voglio soffocarla con la sua keffiya intrisa del mio Cabernet californiano. Raggiunta dalle amiche mi mette in guardia ("voglio misurare la tua capacità di adattamento"), ed ha ragione a farlo perché il locale hip-hop in cui mi porta, e tenta di ubriacarmi a rum, è la discoteca più orrida di tutte le discoteche orride esistenti, esistite ed esistibili. Così immensamente orrida che imploderà nell'antimateria, cumulo fumante di adidas e canotte rappettare.




Perlomeno mi son fatto gli anticorpi per la sera successiva, di nuovo a Montréal, per l'ultima memorabile uscita. Evidentemente Alfredo mi prende troppo in parola e se l'entrata è gratuita, l'uscita è rapidissima. Infatti non sono molto a mio agio tra catene, gabbie, fruste sulla pelle nuda e sudata, navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, insomma cose che voi umani eccetera eccetera. Mi conforteranno al ritorno tutte le sciarpette azzurre con nodo alla milanese incontrate nella vasca sul Corso: Provinzia è un'incrollabile certezza.



Scoiattoli, husky e salmoni





(le mie vacanze d'autunno canadesi)




Ricorderò Montréal come la città degli scoiattoli, delle biciclette e dei pazzi senzatetto. Il tempo è splendido, il San Lorenzo placido, io e il mio zainetto serpeggiamo fluidi nella variopinta folla di studenti schitarranti e attempati ciclisti. Contemplo compiaciuto il miracolo sotto i miei occhi: gente cool che parla in francese, chi l'avrebbe pensato. Alfredo mi guida per la città vecchia, il quartiere latino, il Village e il Plateau, ex ghetto di immigrati ed attuale oasi fricchettona; quella vecchia baldracca della mia carta di credito si lascia strofinare da svariati commessi di librerie e cd-shop d’occasione (buona caccia di musica quebecchese, altra sorpresa). Chantal e Stéphanie ci portano alla serata d’apertura dell’Università francofona, dove un gruppo di comici in ascesa sbeffeggia i politici locali e tale Thomas Jensen, tra Manu Chao e Noir Désir, infiamma la pista; rido per cameratismo e poi ballo di gusto (saggio di umorismo quebecchese, l`imitazione di radio Canada: “morti, stupri e violenze - in un ottimo francese”). Alfredo, franco-spagnolo fuggito da Bruxelles, lavora qui da sei mesi e conosce i locali palmo a palmo; si sceglie un pub studentesco di quattro piani più balcone più giardino più cortile più valanga di ventenni bionde e vaginifiche. Mentre mi racconta della sua imminente partenza per la Nuova Zelanda, la mia birra invidiosa efferve all`epifania di una telegenicissima neomaggiorenne che si siede senza troppi complimenti al nostro tavolo. Per venderci marijuana, e che credevi, qui anche lo spaccio ha le sue esigenze estetiche.


Per espiare le birre incamerate scampagno al Mont Royal, boscosa collina con vista sui buildings, sul centro olimpico, sulla snobbissima università anglofona in stile, of course, vittoriano; qui in cima prendono vita le Tam Tam Sundays, psicobucoliche adunate di bongolisti scalzi, punk e giovani engagés – si inscena la rivoluzione che si tradirà col diploma in tasca. Montréal, per inciso, è insieme a Berkeley la capitale no-global del nord America. A pranzo ci attende uno street-party nel quartiere borghese. Artefice ne è Jerome, giovane expat francese, free-lance per un settimanale di strada. Le sue compiaciute ambizioni socialsociosociali sono assecondate dal municipio locale che gli fornisce tavoli, panchine e transenne per chiudere la strada. Il concetto è banchettare tra vicini di casa, né più né meno, ma a sentire le conversazioni dei quebecchesi presenti l`evento è più epocale di un colpo di stato di Gran Bretagna. Scopro così che in questo grande paese, il cui più grave dramma politico attuale risiede nelle liste d`attesa per la scuola materna, la paranoia individualista è fonte di quotidiano malessere. Così almeno mi confermano un`ex sessantottarda della Costa Azzurra, un settantenne anarchico ed una casalinga troppo in carne che si complimenta per il mio francese. Sfido, è dislessica. Comunque ottima scorpacciata di cibo haitiano, qualunque cosa ci fosse dentro. Serata nostalgica sotto una pioggerellina battente, accessorio periferico dell`uragano che ha risparmiato le mie vacanze. Nostalgica perché rivedo Christine, bella e sola come cinque anni fa. I genitori persi in un incidente aereo, mica facile scherzare con la vita per lei.


Lasciati i viali infiniti, le casette colorate, i beggars, i tattoo-shop, i locali ultra-stylish, le code davanti ai sexy-bar (!), i brunch generosi, l’inaudita fauna del quartiere gay, mi inbarco per il grande nord. Nota dolente: sul mio volo una truppa di cacciatori americani in tuta mimetica produce un casino pari solo a quello di una truppa di cacciatori americani in tuta mimetica, ma quando paghi 240 mila dollari per qualche giorno di caccia al caribù fischiare alle tette della hostess eschimese è francamente comprensibile. Nota saliente: gli annunci in eschimese sono dieci volte più lunghi di quelli in inglese e per iscritto i geroglifici sono così decorativi che quasi quasi mi faccio tatuare “giubbotto di salvataggio sotto il sedile”. Il paesaggio sorvolato per tutto il volo non assomiglia a nulla di già visto e se siano terre invase dalle acque o piuttosto mare tempestato di arcipelaghi proprio non saprei dire. Isabelle mi viene a prendere all`aeroporto in sella ad una moto a quattroruote, il veicolo più diffuso qui a Kuujjuaq assieme allo ski-doo, un piccolo gatto delle nevi che scheggia come un motoscafo. Siamo nel Nunavik, sotto la baia di Ungava, terra di crateri di meteoriti, tundra e orsi bianchi; il villaggio non ha collegamento alcuno (strade, ferrovie, acquedotti) se non per aereo o battello fino a ottobre, prima che ghiacci il fiume, uno dei pochi al mondo soggetto alle maree. Non ne so il motivo ma le orecchie mi fischiano per ore, quei particolari che nelle puntate di Quark non ti raccontano mica.


Il villaggio inuit conta 2000 abitanti sistemati in blocchi prefabbricati tutti uguali e sopraelevati (non si può scavare nel permafrost). Isabelle vive qui da appena due mesi, dopo due anni passati in Mali, ed insegna francese ai bimbi eschimesi, che ovviamente voglio subito incontrare; quello più sveglio mi accoglie in classe con un “como va”, gli altri mi parlano un po’ in inglese e un po’ in inuktikut. Per tradizione gli eschimesi regalano un figlio ai genitori, così alcuni bimbi sono fratelli della loro mamma. Praticamente tutti gli inuit sono alcolizzati e molti pure tossici, per cui nello spaccio del villaggio non si trova neanche una birra, che si trova invece (carissima) al mercato nero. Il week-end lo trascorrono a ubriacarsi pesante, e gli episodi di violenza domestica sono innumerevoli; il tasso di suicidio è il più alto del mondo. Isabelle mi racconta storie di cui ancora rabbrividisco mentre mi accompagna in una passeggiata nella tundra, dove il piede affonda nella torba nera costellata di bacche e di tanto in tanto si incontano sculture in pietra che gli inuit usano per orientarsi (inukshuk). La comunità bianca è composta per lo più di ragazzi intraprendenti attirati dall`avventura e dagli stipendi assai elevati; Alejandro, urugaiano, ha trovato lavoro in banca il secondo giorno in cui è arrivato. Ci sono australiani, messicani, olandesi e io rischio di essere il primo italiano a mettere piede qui da chissà quanti anni. Ogni tanto qualche eschimese suona alla porta per vendere denti d`orso. Aspetto con impazienza la cena, quando mangerò carne di caribù e se avrò fortuna vedrò l`aurora boreale - direi che me la merito; nel frattempo giocherello con Kaua, finalmente un husky al posto giusto.



Another try


E- mail di Luca - un uomo, un gineceo - : "Amica fidata sbarca a Brux. L'europarassita è pregato di accoglierla". Il sottoscritto, oltre che europarassita, è pure piuttosto diffidente degli appuntamenti alla cieca. Tipo in chat dove Torello 78 invita a cena la promettente Libellula 82, finché non realizza che quello che credeva un idrante sta passeggiando nervosamente in abito da sera, ed ha tre secondi per svoltare nel primo MacDonald e sublimare la sua fregola negli hamburger. "Ok, la chiamo", perché la diffidenza è l'anticamera del rimorso. La voce di Serena al telefono dissipa ogni timore: serica e felina, l'amore sarà una dj notturna.
Alle 9 e 01 intuisco il suo ritardo - non correre, telefoniamoci per sempre. Una buona relazione inizia con una buona cena, ed il Méditerranée fa proprio al caso nostro: pareti rosso sandalo, drappeggi verde cobalto. E cameriere biondo lillone, di quelli con tatuato in fronte "sono qui per pagarmi le vacanze". Ok, mi dico, ti dò una mancia che ci paghi tutti i drink del Club Med, però parti subito uscendo dalla finestra della cucina. E piantala di servirmi le olive in salamoia, mica posso continuare a sputare i noccioli mentre Serena mi spalma la sua intimità sui crostini al sesamo. Beh, forse i suoi maglioni contro il freddo brussellese non sono proprio ciò che ha di più intimo, ma Serena non è una che si rivela subito e l'arte sta tutto nel farlo sembrare. Non vedo l'ora che la cena finisca per telefonarle di nuovo.